AUSER RICORDA DANTE nei 700 ANNI DALLA SUA MORTE

     
           





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ILLUSTRATORI DELLA DIVINA COMMEDIA

Sandro Botticelli
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FEDERICO ZUCCARI


Dante, Federico Zuccari e la Elettrice Paladina.

Da 1586 al 1588 Federico Zuccari, il pittore che ha affrescato la volta della cupola del Duomo di Firenze, ha illustrato la Divina Commedia mentre era a Madrid chiamato dal sovrano e molte delle sue pagine recano sul dietro la nota particolare che esse furono terminate nell’Escorial. Queste note non sono visibili, perché i disegni, su carta, sono montati per la loro conservazione. Tutte le 88 pagine, sono eseguite con tecnica brillante: a volte sono disegnate a sanguigno; alcune volte hanno figure rosse in un paesaggio nero, mentre altri sono abbozzati in seppia.
La collezione fu donata nel 1738 agli Uffizi da Anna Maria Luisa de’ Medici, Elettrice Palatina., di cui oggi, 18 febbraio è la ricorrenza della sua morte.
I disegni non sono visibili al pubblico proprio per la loro delicatezza nel mantenimento. La Galleria degli Uffizi li ha messi online fin da Gennaio proprio per le celebrazioni in occasione dei 700 anni dalla more di Dante e sono visibili al seguente link: https://www.uffizi.it/mostre.../dante-istoriato-inferno

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Giovanni Stradano



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GUSTAVE DORE'






𝙂𝙪𝙨𝙩𝙖𝙫𝙚 𝘿𝙤𝙧𝙚́ (Strasburgo 1832 - Parigi 1883), è stato un pittore e incisore francese oltre che disegnatore, litografo, scultore, divenuto famoso per le illustrazioni della Divina Commedia unitamente a molte altre opere tra cui Paradiso Perduto, Don Chisciotte, Orlando Furioso, la Bibbia.
I disegni della Divina Commedia furono effettuati tra il 1861 e il 1868.
I suoi contrasti di bianco e nero, rendono alla perfezione la forza realistica dell’opera ed ha contribuito notevolmente a farla conoscere nel mondo; numerose sono le edizioni di libri con i suoi disegni.
Affermatosi come artista eclettico nei maggiori generi della sua epoca, ha segnato l'immaginario del XX secolo e quello di inizio XXI nel campo cinematografico e nel fumetto,di cui è considerato uno dei padri fondatori.
A cura di Elisabetta

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WILLIAM BLAKE







𝑾𝒊𝒍𝒍𝒊𝒂𝒎 𝑩𝒍𝒂𝒌𝒆 ( Londra 1757-1827) poeta, pittore e incisore, considerato una delle più grandi figure dell’arte inglese tra il Settecento e l’Ottocento
Ha illustrato la Divina Commedia, su commissione, che lasciò incompleta a causa della sua morte.
Blake si sentiva vicino alla mentalità dantesca, soprattutto per quanto riguarda la religiosità e il disprezzo per le cose materiali. I disegni della Commedia sono, come tutti quelli da lui realizzati, impregnati delle sue visioni.
Della sua versione, realizzata con diverse tecniche, dagli schizzi a matita agli acquerelli, sono rimasti 102 acquerelli dei quali 72 dell’Inferno, 20 del Purgatorio, 10 del Paradiso.
I suoi disegni sono conservati in alcuni dei maggiori musei tra cui il National Gallery di Victoria di Melbourne, il Birmingham Museum and Art Gallery e il British Museum di Londra.
Una selezione delle sue poesie sono state tradotte dal nostro Ungaretti.
a cura di Elisabetta
Immagini da Wikimedia Commons


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AMOS NATTINI


Francesco Scaramuzza






RITRATTI DI DANTE 

RITRATTO DI DANTE di ANDREA DEL CASTAGNO

CICLO DEGLI UOMINI E DELLE DONNE ILLUSTRI

Questo ritratto di Dante fa parte di un ciclo di affreschi ritrovati nel 1847 all’interno di Villa Carducci (poi Pandolfini), che si trova a Firenze nella zona di Soffiano-Legnaia.

Gli affreschi denominati “Ciclo degli uomini e delle donne illustri” furono commissionati  dal gonfaloniere Filippo Carducci ad Andrea del Castagno, che li dipinse nel 1455.

Quando furono trovati vennero rimossi dalla parete; dopo il restauro e varie vicissitudini sono stai esposti agli Uffizi. 

Il ciclo raffigura vari personaggi dell’antichità e tra i letterati, oltre a Dante, vi sono Petrarca e Boccaccio.

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RITRATTO

DI DOMENICO di MICHELINO NEL DUOMO DI FIRENZE


Questo ritratto, unico nel suo genere, mostra a grandezza naturale Dante che ha in mano la Divina Commedia.
Il dipinto fu eseguito nel 1465 da Domenico di Michelino su disegno di Baldovinetti per la Cattedrale di Firenze, dove è ancora esposto e dove all’epoca si svolgevano letture e commenti della Divina Commedia.
Dante è in piedi al centro, con la veste rossa, il berretto e la corona di alloro, e si possono leggere alcune righe della sua opera. Alla sua destra indica, con la mano aperta, l'Inferno. Dietro il portale di accesso c'è un gruppo di dannati condotti da un diavoletto che innalza una bandiera gialla. Sullo sfondo si nota la Montagna del Purgatorio con al centro un angelo a guardia della porta mentre, alla sommità, il Paradiso con Adamo ed Eva. Alla sinistra di Dante riconosciamo Firenze con le principali costruzioni del tempo in cui risalta particolarmente la cupola del Duomo.
Il quadro ha un'iconografia di particolare interesse perché è l'unica immagine di un tempo antico che fornisce un ritratto distintamente individualizzato.
Immagine da Wikimedia Commons
In questo link troverete una spiegazione accurata del dipinto da parte di Monsignor Verdon:
Duomo di Firenze, Dante nel Duomo





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IL SOGNO DI DANTE - dipinto di 𝘿𝙖𝙣𝙩𝙚 𝙂𝙖𝙗𝙧𝙞𝙚𝙡 𝙍𝙤𝙨𝙨𝙚𝙩𝙩𝙞


𝘿𝙖𝙣𝙩𝙚 𝙂𝙖𝙗𝙧𝙞𝙚𝙡 𝙍𝙤𝙨𝙨𝙚𝙩𝙩𝙞 (Inghilterra 1828 – 1882) figlio di Gabriele Rossetti, esiliato politico italiano studioso di Dante. Fu battezzato con il nome Gabriel Charles Dante. Solo in un secondo momento il pittore sceglierà di modificare il proprio nome di battesimo eliminando Charles e invertendo gli altri due per diventare Dante Gabriel Rossetti.
“Grande italiano tormentato nell'inferno di Londra" come lo definisce John Ruskin, cresciuto in un’atmosfera familiare intrisa di cultura e senso artistico, si avvicina a Dante Alighieri, grazie al padre, intorno ai 16 anni e in breve diviene grande cultore della letteratura italiana e sopratutto delle opere dantesche. Traduce dall’italiano la Vita Nova da cui trae un’inesauribile fonte di soggetti per i suoi quadri. Durante gli anni della sua maturità artistica, unitamente alla confraternita dei Prerafaelliti che ha fondato, si concentra sull’amor cortese e ne fa oggetto di molti suoi dipinti.
Crea delle splendide opere quali “Il sogno di Dante” nel 1861 ispirato alla “Vita Nova”, “Beata Beatrix”, dipinta tra il 1864 e il 1870, ispirata a Beatrice con le fattezze di sua moglie Elizabeth Siddal e, affascinato dalla figura dantesca “Pia de’Tolomei” la dipinge nel 1868 con la modella Jane Morris già famosa presso i Prerafaelliti. Anche i due personaggi danteschi Paolo e Francesca sono compresi tra i soggetti delle sue opere.
A cura di E.Brunetti
Immagini da Wikimedia Commons








RITRATTO DI DANTE di EDUARDO KOBRA a RAVENNA
Murale dedicato a Dante Alighieri, realizzato a Ravenna da Eduardo Kobra, street artist, nato a San Paolo in Brasile e che dal 1987, con i suoi dipinti caleidoscopici, dipinge facciate di edifici, muri, sottopassaggi e strade.

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LUOGHI GEOGRAFICI
Visitati da Dante o menzionati nella Divina Commedia

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𝗗𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗻 𝗟𝘂𝗻𝗶𝗴𝗶𝗮𝗻𝗮 (𝗩𝗮𝗹 𝗱𝗶 𝗠𝗮𝗴𝗿𝗮)


« .. se novella vera
di 𝑽𝒂𝒍 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒈𝒓𝒂 , o di parte vicina,
sai, dillo a me, che già grande là era.
Chiamato fui Corrado Malaspina;
non son l'Antico, ma di lui discesi. »
(Dante Alighieri, Purgatorio, VIII 115-18[1)
La tradizione vuole che Dante abbia soggiornato a lungo a 𝑭𝒐𝒔𝒅𝒊𝒏𝒐𝒗𝒐, oggi comune in provincia di Massa-Carrara. Si obietta che il castello venne in possesso dei Malaspina soltanto in epoca posteriore alla morte di Dante; probabilmente egli è stato ospite in Lunigiana non solo nei vari castelli dei Malaspina dello Spino Secco ma, a causa di incarichi diplomatici, anche presso alcuni alti protettorati del vescovo di Luni, tra i quali si annoverava senz’altro il castello di Fosdinovo.
Gabriele D’Annunzio scrisse, a proposito del castello:
“𝐷𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑟𝑖𝑓𝑢𝑔𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝐷𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑙 𝑐𝑎𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝐹𝑜𝑠𝑑𝑖𝑛𝑜𝑣𝑜, 𝑠𝑢 𝑙’𝑎𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑜𝑠𝑎, 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑒 𝑠𝑢𝑒 𝑡𝑜𝑟𝑟𝑖 𝑟𝑜𝑡𝑜𝑛𝑑𝑒, 𝑐𝑜𝑛 𝑖 𝑠𝑢𝑜𝑖 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑣𝑎𝑠𝑖 𝑑𝑎𝑙𝑙’𝑒𝑟𝑏𝑒 𝑠𝑒𝑙𝑣𝑎𝑔𝑔𝑒, 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑒 𝑠𝑢𝑒 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑖𝑛𝑎𝑡𝑒, 𝑐𝑜𝑛 𝑖 𝑠𝑢𝑜𝑖 𝑎𝑛𝑑𝑟𝑜𝑛𝑖, 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑒 𝑠𝑢𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑜𝑠𝑐𝑎 𝑝𝑖𝑒𝑡𝑟𝑎, 𝑐𝑜𝑛 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑎 𝑓𝑒𝑟𝑟𝑖𝑔𝑛𝑎 𝑜𝑠𝑠𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑔𝑢𝑒𝑟𝑟𝑒𝑠𝑐𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑖 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑛𝑜𝑛 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑢𝑟𝑣𝑎𝑡𝑎”.
Dante fu ricevuto, nella primavera del 1306, da 𝑭𝒓𝒂𝒏𝒄𝒆𝒔𝒄𝒉𝒊𝒏𝒐 𝑴𝒂𝒍𝒂𝒔𝒑𝒊𝒏𝒂 che lo incaricò del ruolo di “procuratore di pace” per risolvere una disputa tra gli stessi Malaspina e il vescovo di Luni. L’incontro avvenne a 𝑴𝒖𝒍𝒂𝒛𝒛𝒐, cuore del feudo dei Malaspina dello Spino Secco. Il centro storico medievale di Mulazzo è dominato dalla Torre di Dante, sotto la quale si trova la statua del Poeta scolpita da Arturo Dazzi. Mulazzo è anche famosa per gli abitanti della sua piccola frazione di Montereggio, i quali dopo la metà dell’800 sono partiti con ceste di libri in spalla per raggiungere le città del nord sprovviste di librerie e aprirne di nuove. Proprio per questo Montereggio è, in tutta Italia, l’unico paese inserito nel circuito internazionale delle Book Town, una vera città del libro da cui sono partite le più note famiglie di librai.
a cura di E. Brunetti



CAMALDOLI e LA VERNA nella DIVINA COMMEDIA


Divina Commedia   Purgatorio V, 94 – 96

……..” Oh ! , rispuos'elli, a pie' del Casentino
traversa un'acqua c'ha nome l’ Archiano,
che sovra l'Ermo nasce in Apennino.”

Ermo – Eremo di Camaldoli . Oggi si intendono il monastero e la foresta circostante, area compresa nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. Si trova a un’altezza di circa 1100 m. e fu fondato da San Romualdo nel 1025 circa in una radura detta Campo di Maldolo, probabilmente dal nome del proprietario dei terreni. Tra le celle visitabili anche quella dello stesso San Romualdo, citato nel Paradiso XXII, 49.  

Circa 3 km sotto l’eremo, si trova il monastero, nato come ospizio per i pellegrini. Il monastero era chiamato anticamente Fonte-Bono; accanto ad esso scorre il Fosso di Camaldoli che va a gettarsi nell’Archiano, e che era considerato fino al XV secolo la parte iniziale di questo torrente. Solo successivamente prese il nome di Fosso di Camaldoli e Archiano fu denominato quel tratto di corso d'acqua che proviene da Badia Prataglia.



Paradiso XI, 106

……”.nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l'ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno”

crudo sasso – La Verna: nel 1224 vi si ritirò San Francesco d'Assisi con i suoi seguaci, edificandovi una piccola chiesa. Nel 1262 i Conti Guidi vi fecero edificare la Cappella delle Stimmate come segno di devozione verso il Santo. Un erudito francescano del Seicento, Padre Salvatore Vitale, racconta in un libro devozionale l’antica storia del luogo: «Questo sacro Monte, per tradizione di memoria antichissima si sa, e per molti Autori, che fu nominato Laverna per un Tempio di Laverna, Dea gentilica di ladroni quivi edificato, e frequentato da molti briganti che si rifugiavano nelle caverne e nel bosco da dove potevano recarsi a predare i viandanti”. Laverna, un’antica divinità italica del mondo sotterraneo, era venerata anche a Roma come protettrice dei ladri. Il Santuario, nella forma che conosciamo oggi, con il grande convento e la basilica maggiore, venne eretto nel XV e XVI secolo.

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𝑫𝒂𝒏𝒕𝒆 𝒆 𝒊 𝒄𝒂𝒔𝒕𝒆𝒍𝒍𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝑪𝒂𝒔𝒆𝒏𝒕𝒊𝒏𝒐






I Conti Guidi presero molto a cuore le sorti di Dante esiliato da Firenze e lo ospitarono nei loro castelli del Casentino: 𝗣𝗼𝗽𝗽𝗶, 𝗥𝗼𝗺𝗲𝗻𝗮, 𝗣𝗼𝗿𝗰𝗶𝗮𝗻𝗼.
𝙋𝙤𝙥𝙥𝙞 - Dante fu ospitato nel 1310 dal Conte Guido Simone da Battifolle; si dice che qui egli abbia composto il XXXIII Canto dell'Inferno. Il castello domina il vecchio paese e la vallata del Casentino. Al suo interno si trova la Biblioteca Rilliana che conserva 25.000 volumi antichi .
Secondo Vasari, Arnolfo di Cambio avrebbe utilizzato il Castello di Poppi, in particolare la torre, come prototipo per la realizzazione di Palazzo Vecchio a Firenze.
𝙍𝙤𝙢𝙚𝙣𝙖 – Il castello fu eretto intorno all'anno Mille per volontà del Conte Alberto da Spoleto e diventò, in seguito, una delle principali sedi fortificate della casata dei conti Guidi. Il Castello è ancora oggi uno splendido esempio di fortezza medievale, anche se molto ridotto rispetto al passato. La Torre delle Prigioni è una delle torri rimaste in piedi dell’antico castello che un tempo era cinto da tre giri di mura. Il toponimo Romena o Ormena è un vocabolo di origine etrusca . Dante nomina il castello nel canto XXX dell’Inferno, nell’episodio di Mastro Adamo, che pagò con la vita l’aver falsificato, per conto dei Guidi, i fiorini di Firenze.
𝙋𝙤𝙧𝙘𝙞𝙖𝙣𝙤 - Fu uno dei primi possedimenti feudali dei conti Guidi.
Documentato nel 1017 come "locus Porciano", nel 1115 viene citato come "castrum" in associazione al suo borgo e nel 1164 è confermato di proprietà dei Conti Guidi in un documento dell'imperatore svevo Federico I Barbarossa.
Dante vi fu ospitato durante il suo esilio tra ottobre del 1310 e aprile del 1311 e qui scrisse tre delle sue celebri epistole latine: “Ai Principi e Popoli d’Italia”, “Ai Fiorentini” e “Ad Arrigo VII”.

𝑫𝑨𝑵𝑻𝑬 𝒂 𝑺𝑨𝑵 𝑮𝑶𝑫𝑬𝑵𝒁𝑶



All’interno dell’abbazia di San Godenzo, si svolse nel giugno 1302 il convegno tra i Guelfi Neri e gli esuli fiorentini Ghibellini uniti ai Guelfi Bianchi.
Tra i Guelfi Bianchi partecipò 𝐃𝐀𝐍𝐓𝐄 .
Le deliberazioni non giunsero al risultato sperato: in breve tempo si scatenò un nuovo conflitto fra Guelfi Bianchi e Neri che segnò la vittoria dei Neri che in quel momento governavano a Firenze e Dante, staccatosi dai propri compagni, proseguì da solo nel suo esilio.
L’Abbazia, dedicata a San Gaudenzio, rappresenta uno
dei più importanti esempi di architettura romanica in Toscana. Al centro del paese, fu costruita nel 1028 per volere del vescovo di Fiesole Jacopo il Bavaro come monastero benedettino.
Fu ricostruita e nuovamente consacrata nel 1070 dal
vescovo Tresmondo. Successivamente la chiesa
conobbe una fase di declino dovuta al maneggiamento dell'ordine benedettino, fino a quando, nel 1482, fu assorbita dalla basilica della Santissima Annunziata di Firenze, che vi stabilì una comunità di serviti. Questi ultimi restarono nella chiesa fino al 1808.

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𝑺𝒂𝒏𝒕𝒂 𝑪𝒓𝒐𝒄𝒆 𝒅𝒊 𝑭𝒐𝒏𝒕𝒆 𝑨𝒗𝒆𝒍𝒍𝒂𝒏𝒂 

𝑫𝒊𝒗𝒊𝒏𝒂 𝑪𝒐𝒎𝒎𝒆𝒅𝒊𝒂 - 𝑷𝒂𝒓𝒂𝒅𝒊𝒔𝒐 𝑿𝑿𝑰 - 106

“𝘛𝘳𝘢 𝘥𝘶𝘦 𝘭𝘪𝘵𝘪 𝘥’𝘐𝘵𝘢𝘭𝘪𝘢 𝘴𝘶𝘳𝘨𝘰𝘯 𝘴𝘢𝘴𝘴𝘪, 𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘮𝘰𝘭𝘵𝘰 𝘥𝘪𝘴𝘵𝘢𝘯𝘵𝘪 𝘢 𝘭𝘢 𝘵𝘶𝘢 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘪𝘢,

𝘵𝘢𝘯𝘵𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘪 𝘵𝘳𝘰𝘯𝘪 𝘢𝘴𝘴𝘢𝘪 𝘴𝘰𝘯𝘢𝘯 𝘱𝘪𝘶̀ 𝘣𝘢𝘴𝘴𝘪,

𝘦 𝘧𝘢𝘯𝘯𝘰 𝘶𝘯 𝘨𝘪𝘣𝘣𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘪 𝘤𝘩𝘪𝘢𝘮𝘢 𝑪𝒂𝒕𝒓𝒊𝒂,

𝘥𝘪 𝘴𝘰𝘵𝘵𝘰 𝘢𝘭 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘦 𝘦̀ 𝘤𝘰𝘯𝘴𝘦𝘤𝘳𝘢𝘵𝘰 𝘶𝘯 𝘦𝘳𝘮𝘰 ,

𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘶𝘰𝘭𝘦 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳 𝘥𝘪𝘴𝘱𝘰𝘴𝘵𝘰 𝘢 𝘴𝘰𝘭𝘢 𝘭𝘢𝘵𝘳𝘪𝘢”

L’origine del convento di 𝑺𝒂𝒏𝒕𝒂 𝑪𝒓𝒐𝒄𝒆 𝒅𝒊 𝑭𝒐𝒏𝒕𝒆 𝑨𝒗𝒆𝒍𝒍𝒂𝒏𝒂 risale al 980 circa, quando una piccola comunità di eremiti scelse di dimorare in questa boscosa insenatura alle pendici del 𝑴𝒐𝒏𝒕𝒆 𝑪𝒂𝒕𝒓𝒊𝒂, (attualmente provincia di Pesaro e Urbino) circondata da alberi di nocciolo (le avellane) e dalla sorgente d’acqua da cui deriva il nome. Certamente il romitorio sorse sotto l’influsso di San Romualdo, il patriarca della vita eremitica in Occidente, fondatore dell’Eremo di Camaldoli e dell’ordine dei Camaldolesi.

Secondo gli Annales Camaldulenses, Dante nel 1318 fu ospite di Bosone di Gubbio e in quell’anno sarebbe stato a Fonte Avellana. Vi avrebbe dimorato qualche mese per usufruire della doviziosa biblioteca e avrebbe composto alcuni canti del Paradiso.

Lo sviluppo di Fonte Avellana iniziò con San Pier Damiani, figura chiave del monachesimo occidentale che visse e operò nell’XI secolo e al cui operato si deve non solo il nucleo originario della costruzione, ma anche l’impronta spirituale, culturale e organizzativa che resero l’eremo un centro d’attrazione e di diffusione della vita monastica. San Pier Damiani scrisse anche una biografia di San Romualdo circa 15 anni dopo la sua morte.

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                   CHIESA DI CERTOMONDO - POPPI (Ar)



Ex Convento dei frati Minori Francescani, fondato dal conte Guido Novello nel 1262 in occasione della vittoria dei Ghibellini a Montaperti nel 1260. Il convento nel corso del tempo è stato anche sede del tribunale dell’ Inquisizione e nel 1846, in un vecchio bosco di cerri dietro la chiesa, fu scoperto un sepolcreto nel quale furono ritrovati molti oggetti di origine etrusca andati persi perché venduti.

La storia di questa chiesa è legata alla battaglia di Campaldino dell’ 11 giugno 1289 tra i Guelfi di Firenze e i Ghibellini di Arezzo, che il Villani definisce la più “maestrevolmente combattuta” fino a quel momento. La battaglia è famosa per le conseguenze politiche che ne derivarono e per i grandi personaggi che vi parteciparono tra i quali Dante Alighieri, ventiquattrenne, tra i feditori, cioè cavalieri che combattevano nelle prime linee dello schieramento. I Guelfi fiorentini ottennero la vittoria.

I Ghibellini erano condotti dal conte Guido Novello di Poppi e dal vescovo di Arezzo, Guglielmo degli Ubertini, che aveva lasciato il pastorale per impugnare la spada.

Il conte, accortosi che il proprio esercito stava per essere sopraffatto, si rifugiò nel castello di Poppi; il vescovo, vedendo la fuga del conte e sapendo che erano stati uccisi quasi tutti i capitani ghibellini, si gettò a cavallo nel folto della mischia dove rimase ucciso.

Durante la notte i frati trovarono il cadavere e lo portarono segretamente nel proprio convento di Certomondo senza indicare il luogo della sepoltura.

Solo 700 anni più tardi, grazie a ricerche scientifiche, furono rinvenuti sotto il pavimento della chiesa tre scheletri di uomini di 30, 40 e 70 anni circa. Quello di 70 anni fu analizzato e l’esito degli esami non lasciò dubbi: le ossa erano di Guglielmino, claudicante per un problema alla gamba destra.

L’11 giugno 2008 - 719 anni dopo la battaglia - i resti del vescovo e signore di Arezzo vennero trasportati nel Duomo di Arezzo dove riposano sotto il pavimento, come impone il diritto canonico per chi muore brandendo un'arma.

Curiosità: nella zona circostante si trovano i toponimi “Inferno”, “Purgatorio” e “Paradiso”.






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BISMANTOVA NELLA DIVINA COMMEDIA

Divina Commedia, Purgatorio IV, 25
…….
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e in Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch'om voli...









L’accostamento di San Leo (piccolo borgo arroccato su uno sperone di roccia), Noli (villaggio marino della Liguria che a quel tempo era raggiungibile solo via terra attraverso le scogliere) e Bismantova, non può spiegarsi senza pensare che Dante li abbia veduti con i propri occhi e che li menzioni per chiarire la ripidezza della salita alla montagna del Purgatorio o le difficoltà che deve superare durante il suo esilio.
𝓑𝓲𝓼𝓶𝓪𝓷𝓽𝓸𝓿𝓪 (o Pietra di Bismantova, 1047 m.) - montagna dell’appennino emiliano presso Castelnuovo de’ Monti (RE), considerata sacra, la cui area circostante fu abitata da popolazioni celtico-liguri, dagli Etruschi e infine conquistata dai Romani nel II a.C. (è citata come “Suis montium” da Tito Livio). Il poderoso masso si erge nel mezzo della vallata, libero da ogni parte; la vetta è una piattaforma con la stessa ampiezza della base e dà l’idea di una figura geometrica. Guardandola, non si può fare a meno di pensare al racconto “Mondo perduto” di Sir Conan Doyle.
a cura di Elisabetta

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Divina Commedia
Tambernicchi e Pietrapana
Inf. XXXII - 25-30
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanai là sotto ‘l freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse su caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
Tambernicchi ha avuto una difficile identificazione.
In passato veniva individuato con la montagna della Fruska Gora in Serbia/Croazia o addirittura con una montagna in Armenia.
Nei commenti più recenti il nome viene attribuito al Monte Tambura nelle Alpi Apuane che in antichi testi era indicato con il nome di Stamberlicchi.
Questa tesi è plausibile tenendo conto dell’altra citazione in cui Dante nomina
Pietrapana, o Pietra Apuana, cima delle Alpi Apuane, oggi Pania alla Croce.
Osterlicchi, Austria, dal tedesco Oesterreich, derivarono nell’italiano antico varie forme: Austeric, Osteric, Sterlicchi. Osterlicchi.


ARONTE SULLE APUANE


𝘿𝙞𝙫𝙞𝙣𝙖 𝘾𝙤𝙢𝙢𝙚𝙙𝙞𝙖
Inferno XX, 46-51
𝑨𝒓𝒐𝒏𝒕𝒂 è quei ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese, che di sotto alberga,
ebbe tra ‘bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e’l mar non gli era la veduta tronca.
𝘼𝙧𝙤𝙣𝙩𝙖, 𝘼𝙧𝙤𝙣𝙩𝙚, 𝘼𝙧𝙪𝙣𝙨, famoso aruspice etrusco. Nella Pharsalia di Lucano presagì, osservando le viscere, la guerra civile a Roma che terminò con la sconfitta di Pompeo il Grande da parte di Giulio Cesare. L’augure dimorava in una spelonca sulle montagne di marmo, nelle vicinanze di Luni.
Nella leggenda popolare l’indovino è stato trasformato in un gigante che difendeva le Alpi Apuane dai pericoli che giungevano dal mare.
Fu intitolato proprio ad 𝑨𝒓𝒐𝒏𝒕𝒆 il primo bivacco costruito nel 1902 sulle Apuane, a 1642 m., che proprio oggi è stato riconosciuto dal Ministero della Cultura come un bene da tutelare in quanto di "interesse artistico, storico, archeologico ed etnoantropologico”.

PRATOMAGNO



Divina Commedia Purgatorio canto VI. v. 116
Indi la valle, come 'l dì fu spento,
da 𝕻𝖗𝖆𝖙𝖔𝖒𝖆𝖌𝖓𝖔 al gran giogo coperse
di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento,
sì che 'l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde e a' fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
Il Pratomangno, dal punto di vista geologico, ha avuto origine nel periodo oligocenico fra i 35 e 23 milioni di anni fa. Costituisce il crinale spartiacque tra la vallata del Casentino e il Valdarno superiore.
Sulla vetta più alta, di mt. 1592 s.l.m. è stata posta nel 1928 una croce in ferro alta oltre 20 metri che domina tutta la montagna ed è visibile anche dalle montagne che circondano le due vallate adiacenti.
Oltre alla croce, sulla cima della montagna, una lapide ricorda il pilota australiano Herbert John Louis Hinkler che qui si schiantò durante un tentativo di viaggio dall'Inghilterra all'Australia.
Costituiva il passaggio per la transumanza degli animali che dal Casentino attraversavano la montagna verso Loro Ciuffenna in Valdarno per recarsi in Maremma.
Secondo la leggenda potrebbe esserci passato anche Annibale con le sue truppe nel trasferimento da Fiesole ad Arezzo durante la seconda guerra punica.

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RICORDO DI DANTE NELLA BATTAGLIA DI CAMPALDINO


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𝘾𝙤𝙨𝙖 𝙡𝙚𝙜𝙖 𝙞𝙡 𝘾𝙞𝙢𝙞𝙩𝙚𝙧𝙤 𝙙𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙄𝙣𝙜𝙡𝙚𝙨𝙞 𝙖 𝘿𝙖𝙣𝙩𝙚?



𝑨𝒓𝒏𝒐𝒍𝒅 𝑩𝒐̈𝒄𝒌𝒍𝒊𝒏 (Basilea16 ottobre 1827 – San Domenico di Fiesole16 gennaio 1901) è stato un pittoredisegnatorescultore e grafico svizzero, nonché uno dei principali esponenti del simbolismo tedesco.

In questo suo dipinto dal titolo “𝑳’𝑰𝒔𝒐𝒍𝒂 𝒅𝒆𝒊 𝒎𝒐𝒓𝒕𝒊” di cui ha fatto 5 versioni, è raffigurata una barca che accompagna il defunto nel suo ultimo viaggio.

Il conducente della barca evoca chiaramente il personaggio di 𝘾𝙖𝙧𝙤𝙣𝙩𝙚, il traghettatore delle anime nell’Inferno di Dante Alighieri.

Le interpretazioni di quest’opera sono numerose ed ogni intellettuale che vi si è cimentato ha dato una propria versione.

L’isola immaginaria fu forse modellata sul Cimitero degli Inglesi (a suo tempo denominato il Camposanto degli Svizzeri) di Firenze, che i fiorentini chiamavano l’isola dei morti per la sua particolare collocazione e che il pittore conosceva bene in quanto vi era sepolta una delle sue figlie morta a sei mesi durante uno dei suoi soggiorni nella nostra città.

Nel giro di pochi anni il quadro di Böcklin  ispirò e ossessionò artisti vari, dal compositore russo Rachmaninov che scrisse un’opera con lo stesso titolo, fino a Freud che ne era letteralmente fissato, e addirittura Hitler, che ne comprò una delle tre versioni esistenti. 



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LE DONNE AL TEMPO DI DANTE
Le donne fiorentine del Trecento
di Luisa di Tolla
Nella Firenze del Trecento, le donne uscivano raramente di casa, ma in quelle poche occasioni esse facevano sfoggio sia di bellezza, che di sfarzo e persino di eccentricità nel trucco e nell’abbigliamento.
Negli anni di Dante e Beatrice, quando Firenze era una città molto gioiosa, ma anche molto corrotta, esse, erano un simbolo di prestigio: l’orgoglio di una famiglia si fondava in gran parte sulla dote che essa riusciva a conferire ad una ragazza da marito e sulle capacità di spreco che una moglie o una figlia dimostravano nel vestire.
Per essere belle, le donne si adattavano a ogni genere di tormenti.
La pelle doveva essere bianca e pulita, perciò facevano incetta di “lattovari”[antico preparato farmaceutico composto da una densa miscela di principî attivi, polveri, parti ed estratti vegetali impastati con dolcificanti come miele o sciroppi per mascherarne il sapore sgradevole) e “acquelanfe”(,o acqua lanfa, o acqua nanfa: sorta d’acqua odorosa ricavata per distillazione dai fiori d’arancio). o ricorrevano alle arti di “certe femminette” che, come dice il Boccaccio, «fanno gli scorticatoi alle femmine, e pelando le ciglia e le fronti, e col vetro sottigliando le gote, e del collo assottigliando la buccia, e certi peluzzi levandone». Per le depilazioni più radicali, le ricette dell’epoca davano questi consigli: «recipe calcina viva e ben trita e cribellata, e sia posta in vaso di terra e fatta bollire e cuocere a modo di poltiglia, e poscia togli auripimento (solfuro di arsenico) dragma una e sia anche cotto con la calcina». Per verificare se la mistura era pronta, si faceva in tal modo: «togli una penna, che sia posta nel detto unguento; e se la penna si depila è cotto, se no no».
Per la pelle delle malcapitate che applicavano tale preparato, la stessa fonte si affrettava ovviamente a prescrivere anche il rimedio contro le ustioni: unguento populeo e olio rosato.
I capelli erano più belli se biondi. Per schiarirli si usavano ranni speciali e, soprattutto, il sole. Le donne trascorrevano lunghe ore sui tetti delle case, munite di insoliti cappelli con larga tesa, ma senza copricapo (le “solane”), in modo che i capelli potessero godere dei raggi del sole, senza che la pelle si scurisse. Franco Sacchetti, il moralista dell’epoca, che probabilmente passava parte del suo tempo a occhieggiare dall’alto delle case-torri, se la prendeva con questo costume femminile di trattare i capelli col sole: «tutto dì su per li tetti» scriveva, «chi l’increspa, chi l’appiana e chi l’imbianca!».
Naturalmente la donna era bella se alta di fianchi. Perciò le scarpe erano veri trampoli, mentre le gonne strisciavano sul suolo per nascondere quell’artificio: ed era una vera arte conservare una bella andatura senza oscillare su quei marchingegni. Le scollature erano molto profonde, cosa che faceva indignare persino Dante contro «l’andar mostrando con le poppe il petto».
Le stoffe erano preziosissime e per questo era necessario che fossero anche abbondanti. Gli strascichi si allungavano e le maniche si gonfiavano a sacco. «Le maniche loro», commentava il solito Sacchetti, «o sacconi piuttosto si potrebbero chiamare, qual più trista e più dannosa e disutile foggia fu mai? Poté nessuna torre o bicchiere o boccone di su la mensa che non imbratti e la manica e la tovaglia co’ bicchieri che ella fa cadere?». Periodicamente gli uomini, forse mossi dalla parola di qualche santo frate che tuonava dal pulpito contro il lusso eccessivo, emanavano leggi restrittive contro gli eccessi dell’abbigliamento femminile, come accadde ad esempio nel 1330: la Repubblica fiorentina istituì una magistratura minore, l’Ufficiale delle donne, degli ornamenti e delle vesti, con il compito di sovrintendere alle leggi suntuarie. In particolare doveva vigilare contro l’ostentazione sfarzosa nell’abbigliamento femminile durante i banchetti di nozze e ai funerali. In quell’anno, riferisce Giovanni Villani, furono emanate disposizioni severissime: erano proibiti gli scolli, gli strascichi, le famose maniche a saccone e le pelli di ermellino e altri animali costosi.
Fu anche stabilito «che niuna donna non potesse portare nulla corona né ghirlanda, né doro né d’ariento né di perle né di pietre né di seta […] né trecciere di nulla spezie se non semplici, né nullo vestimento intagliato né dipinto con niuna figura […] né nulla fregiatura né d’oro né d’arinento né di seta, né niuna pietra preziosa né eziandio ismalto né vetro; né potere portare più di due anella in dito…».
Gli unici in grado di esercitare un’opposizione diretta contro simili provvedimenti erano in realtà gli orafi e i setaioli, che vedevano notevolmente ridotte le loro entrate.

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MA COME SI VESTIVA DANTE?
Oggi definiremmo senz’ altro pittoresco l’abbigliamento fiorentino dell’epoca di Dante Alighieri, ovvero quello del periodo compreso tra il XIII e il XIV secolo, in piena età medievale.
Il vestiario tipico maschile consisteva in una specie di gonnella, che partendo dal collo, scendeva fino alle caviglie liberamente o stretta in vita da una cintura. Su questa gonnella a maniche strette veniva infilata la guarnacca (o guarnaccia o gamurra), una specie di mantello con davanti dei risvolti e le maniche larghe, confezionato in lana per l’inverno, in seta per la bella stagione.
Su tutto si metteva infine il lucco, tipico e caratteristico mantello fiorentino con il cappuccio a punta.
L’abbigliamento fiorentino medievale costituiva anche il primo e più evidente biglietto da visita a indicazione del ceto sociale e della professione cui i cittadini appartenevano: giudici e notai, ad esempio, indossavano abiti rossi mentre i cavalieri si distinguevano per il colore scarlatto delle vesti; inoltre, i poveri usavano tessuti grezzi per il confezionamento dei capi del proprio guardaroba, i ricchi potevano permettersi stoffe costose, come la seta o il raso.
Solo i cittadini abbienti indossavano calze fino a metà coscia, foderate sotto la pianta dei piedi con una sottile soletta di cuoio cui, durante l’inverno, si aggiungevano stivali o calzari in cuoio; i poveri dovevano accontentarsi, anche col freddo intenso, di semplici zoccoli in legno.
Di solito i più disagiati economicamente andavano in giro con la testa scoperta, i più abbienti invece coprivano il capo con una specie di berretto frigio con punta da un lato o con un turbante che ricadeva sulla spalla o poco più giù.
Una stravagante forma di snobismo dell’epoca, imponeva che le calze fossero tanto aderenti da mettere in massimo rilievo gli attributi virili del corpo.
L’abbigliamento femminile, sostanzialmente non molto differente da quello maschile e piuttosto simile tra povere e ricche, consisteva in un camicione detto sottana (o socca) dalla vita ai piedi, mentre sopra si indossava la gonnella (o gamurra) fatta di un solo pezzo o con bottoni sul davanti, più o meno scollata, lunga sino a terra, in lana d’inverno, in seta d’estate.
Quando la temperatura era molto bassa si aggiungeva un mantello foderato di pelliccia.
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Il Rosso nella Divina Commedia
Beatrice è protagonista di molte delle prime poesie stilnoviste di Dante, poi raccolte nella Vita Nuova e nelle Rime. Nel «libello» giovanile la donna non è solo la donna-angelo dello Stilnovo, ma è già raffigurazione di Cristo e sembra anticipare il valore allegorico che avrà nel poema, ovvero quello della grazia divina e della teologia rivelata che sola può condurre l'uomo alla salvezza eterna e al possesso delle tre virtù teologali: fede, speranza, carità.
Beatrice è coperta da un velo bianco su cui è posta una corona di ulivo, indossa un abito rosso e un mantello verde, colori che simboleggiano le tre virtù teologali.
Il bianco è la fede, il verde è la speranza, il rosso è la carità.
Nell'attimo preciso in cui lei appare scompare Virgilio, il che provoca in Dante un profondo turbamento e un pianto accorato.

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       Dante si ispirò a una leggenda che faceva parte della storia dell’epoca.

La tradizione narrava che quando in Provenza regnava il Conte Raimondo Beringhieri giunse alla sua corte un “romeo” o pellegrino.

Pellegrino, da dove è venuto il nome generico, era denominato chi andava a San Giacomo di Compostela e riportava una conchiglia capasanta per dimostrare che era stato al tabernacolo del santo.

Questa pratica sembra derivata dall’uso della conchiglia nel battesimo e quindi come simbolo di penitenza e rigenerazione.

I “romei” erano coloro che andavano a Roma, i “palmieri” si recavano in terra Santa e, come segno della loro devozione, riportavano due foglie di palma incrociate.

Il pellegrino giunto in Provenza era Romée de Villeneuve (1170-1250). Stabilitosi alla corte, condusse gli affari di stato così bene che in breve tempo divenne primo ministro, conestabile e gran siniscalco di Raimondo Beringhieri o Berengario. Triplicò le entrate del tesoro e collocò in nozze regali le quattro figlie del conte: Margherita andò sposa a Luigi IX re di Francia, Eleonora a Enrico III d’ Inghilterra, Sancia a Riccardo di Cornovaglia e Beatrice, erede della contea, a Carlo I d’Angiò.

I cortigiani non tolleravano la sua potenza, lo screditarono agli occhi del principe che in parte credette alle loro calunnie.

Romeo si difese con dignità ma poi indossò il suo cappello con la conchiglia di Compostela, chiese di avere il suo mulo, il bastone e la sua bisaccia. Sparì povero come era arrivato tornando umile pellegrino, mendicando per il resto dei suoi giorni.

A cura di Elisabetta Brunetti

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TOPOLINO ALL'INFERNO di Riccardo Trotta

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GLI AMORI SFORTUNATI NELLE OPERE DI DANTE E SHAKESPEARE
Entrambe le storie hanno origine in rivalità tra famiglie.
PAOLO E FRANCESCA
Divina Commedia – Inferno, canto V - 103
“Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona”.
Francesca, figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna, andò sposa, con un inganno, a Gianciotto di Malatesta, signore di Rimini, valoroso guerriero ma brutto e deforme, per siglare la pace tra le due famiglie. Francesca si innamorò del cognato, Paolo di Malatesta. I due, sorpresi mentre leggevano la storia d’amore di Ginevra e Lancillotto, furono uccisi da Gianciotto.
Oltre che da Dante, la vicenda amorosa è stata rievocata da Silvio Pellico nella tragedia “Paolo e Francesca” e da Gabriele D’Annunzio in “Francesca da Rimini”, scritta nel 1901 e interpretata da Eleonora Duse nella prima teatrale, da cui il compositore Riccardo Zandonai ha musicato la relativa opera.
I due amanti sono stati stati fonte di ispirazione anche per Tchaikovsky - Francesca da Rimini - Op. 32, e Rachmaninov - Op.25,.

ROMEO E GIULIETTA di William Shakespeare
atto secondo, scena seconda.
“GIULIETTA - Romeo, Romeo! Perché mai sei Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo nome; se non vuoi, giurami solo amore, e io non sarò più una Capuleti”.
La prima ispirazione per l'opera di Shakespeare fu un racconto italiano di Luigi da Porto, datato 1530 circa, che narra di due amanti delle nobili famiglie veronesi Montecchi e Capuleti, Romeo e Giulietta.
La bella e tragica storia di un amore sfortunato divenne immediatamente popolare. È stata raccontata in prosa e in versi in Italia e successivamente drammatizzata da scrittori italiani, francesi e spagnoli.
Nel 1559 un autore francese, Boisteau, tradusse una versione trovata in una novella di Matteo Bandello, c. 1480-1562, e alterò il dramma rinviando il risveglio di Giulietta fino a dopo la morte di Romeo. Giulietta si uccide come nella versione di Bandello, con il pugnale di Romeo.
Proprio in questa forma la storia arrivò in Inghilterra e fu accolta da Shakespeare.
Dal Bandello altre tre novelle sono state in parte adattate da Shakespeare per le sue opere: Cimbelino, Molto Rumore per Nulla, La Dodicesima Notte.
Immagini da Wikimedia Commons.

Credits delle immagini:
Paolo e Francesca dipinto di Marie-Philippe Coupin de La Couperie (1773 - 1851)
Romeo e Giulietta dipinto di Frank Dicksee (1853-1928)

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LA DIVINA COMMEDIA NEL FUMETTO

La storia del fumetto comincia nell’ambiente del giornalismo newyorkese alla fine dell’Ottocento, quindi più di 600 anni dopo la nascita della Commedia.

Dopo le invenzioni della macchina fotografica e da presa, alla loro popolarità e alla digitalizzazione, oggigiorno siamo immersi in un flusso continuo di immagini.
Il fumetto con i suoi testi brevi, adattati grammaticalmente e lessicalmente all’uso linguistico attuale e che interagiscono con le vignette, probabilmente è più corrispondente alle abitudini di lettura del pubblico odierno che la narrazione in versi di Dante.
Riferimenti all’arte
La tecnica di ricorrere ad adattamenti artistici della narrazione dantesca è frequente nel fumetto, come si può notare in un riferimento alle illustrazioni di Doré nel fumetto L'Inferno di Topolino
Riferimenti a sviluppi storici e tecnologici:
L’Inferno di Paperino dimostra che gli sviluppi tecnologici possono indurre a nuove forme di peccato. Tra i dannati si trovano oltre ad inquinatori e burocrati, anche i pirati della strada che, da vivi, non hanno osservato lo stop. La loro pena è infatti di rimanere per l’eternità fermi allo stop con la macchina caricata sulle spalle. I tele-radio dipendenti sono invece tormentati da impianti stereo, giradischi, televisori ecc. che producono un chiasso infernale
A cura di Elsa Valgiusti
Credits delle immagini:
Martina, G., Bioletto, A., 2016, L’Inferno di Topolino [1949], in Carboni, S. (ed.), L’Inferno di Topolino e altre storie ispirate a Dante Alighieri
Altra vignetta:. La vignetta a sinistra mostra i pirati della strada, ed è tratta da Chierchini/Marconi 2016:
123; a destra i teleradiodipendenti, tratta da ibid.: 128.


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Il “vero volto di Dante”

La statua di Dante a Santa Croce rappresenta la classica rappresentazione del Sommo Poeta
Quando si pensa a Dante Alighieri non si può fare a meno di rappresentarselo come lo abbiamo conosciuto nelle illustrazioni scolastiche tramandate nei secoli: il tipico copricapo sulla testa cinta di alloro, il nasone prominente (e possibilmente aquilino) e, addosso, il pastrano rosso lungo fino a terra. L’ immaginario collettivo si nutre largamente delle raffigurazioni all’ acquaforte del celeberrimo incisore Gustavo Dorè: la figura del poeta laureato, tramandata dalla tradizione, è peraltro la medesima proposta nelle due statue presenti una, sull’ arengario di Santa Croce, l’ altra, in una delle nicchie del Piazzale degli Uffizi.
Diverse sono le vere o presunte raffigurazioni del volto di Dante conosciute dalla storia, prima fra tutte quella che si vuole dipinta da Giotto nella Cappella della Maddalena al Bargello, che viene conosciuta come la “più antica rappresentazione del volto di Dante”.
Tutto questo fino al 2005 quando apre in via del Proconsolo un ristorante che espone all’ esterno un cartellone invero pretenzioso: annuncia infatti che gli avventori potranno vedere “il vero volto di Dante”.
Si tratta del ristorante “Alle murate”.
Per vedere l’ affresco, dopo essere entrati, si raggiunge il fondo del locale fino alla rampa di scale. Saliti in cima ci si volta verso la lunetta di destra sulla quale si riconosce un personaggio che viene identificato come Dante Alighieri.
Come accennato, il ristorante si trova, curiosità nella curiosità, all’ interno di una casa-torre che ospitava i locali di una delle più ricche Corporazioni di Firenze: l’ Arte dei Giudici e dei Notai, che danno peraltro nome alla via del Proconsolo, da una delle cariche dell’ Arte.
I documenti attestano che i lavori sarebbero stati affidati a Jacopo di Cione, fratello dell’ Orcagna, nel 1366. Tra questa data ed il 1375 sembrano essere stati completati gli affreschi recuperati recentemente.
Sebbene il presunto volto di Dante di mano giottesca, dipinto al Bargello, sia anteriore di una trentina di anni (1336), e sia quindi il primo in ordine temporale, il valore di quello recuperato presso l’ Arte dei Giudici e dei Notai consiste soprattutto nell’ asseverare che anche quello del Bargello, vista l’ evidente somiglianza, si riferisce in effetti al Sommo Poeta.
In conclusione, si può affermare che il volto del Bargello è il più antico, ma quello dell’ Arte dei Giudici e dei Notai è il primo che sappiamo con certezza ritrarre Dante: ecco perchè si fregia del titolo altisonante di “vero volto di Dante”.
Dagli affreschi recuperati riemergono anche altri personaggi illustri: Boccaccio accanto a Dante in profondità; di fronte ai due, invece, stavano Petrarca e Zanobi Stradano ormai irriconoscibili.
E in tutto questo, qual è la vera scoperta? Con buona pace dell’ iconografia tradizionale, Dante non aveva il naso aquilino.




Curiosità e aneddoti su Dante Alighieri
Ecco subito una prima curiosità su Dante Alighieri: hai presente le espressioni il bel Paese e senza infamia e senza lode?
Sono espressioni che ha scritto Dante (1265 - 1321) nella Divina Commedia e che sono resistite nel parlato italiano fino ai giorni nostri, per ben 700 anni. Incredibile vero?
Altro che influencer!
L'"influenza" di Dante Alighieri sulla lingua italiana e la nostra cultura in generale è fortissima ancora oggi.
Il suo vero nome era Durante Alagherii de Alagheriis; “Dante” era l'abbrevazione del nome. Fu il poeta Giovanni Boccaccio a tramandarlo come Dante Alighieri,
Si sposò con Gemma Donati: il loro matrimonio fu programmato quando i due avevano solo 12 anni, con un contratto tra i genitori. Si sposarono 8 anni dopo, a 20 anni. Sembra che il poeta non scrisse mai un verso dedicato a sua moglie.
Dante partecipò alle guerre aretino-pisane. Dai suoi scritti si può presumere che combattesse con armatura leggera a cavallo.
Al momento della sua morte l'ultima cantica della Divina Commedia, non era ancora stata pubblicata. Lo fece tempo dopo il figlio Jacopo, che si occupò anche di diffondere l'opera completa.
Dante fu condannato alla pena capitale nel 1302, quando nello scontro tra guelfi bianchi e neri, due gruppi in lotta per il potere sulla città di Firenze, furono questi ultimi a vincere. L'autore, però, era già andato via dalla sua città per rifugiarsi a Ravenna, e non scontò la pena.
Alighieri ha iniziato a scrivere la Divina Commedia il 25 marzo. Secondo alcuni studiosi correvano gli anni 1300 - 1301; secondo altri, il 1307.
La più antica onomatopea della lingua italiana di cui abbiamo testimonianza è "cricchi" (Inferno, XXXII, 30): Dante descrive così il rumore del fiume ghiacciato,
All'inizio l'opera di Dante si chiamava Comedia. L'aggettivo Divina fu aggiunto nel 1500, circa 200 anni dopo, nelle edizioni successive, riprendendo una definizione dello scrittore Giovanni Boccaccio, che la definiva appunto Divina.
Il manoscritto originale della Divina Commedia è andato perduto. Quello che abbiamo oggi si basa su circa 700 manoscritti, copie dell'originale, del XIV e XV secolo.
Dante morì a Ravenna, le spoglie furono nascoste per paura che i fiorentini le trafugassero (le volevano riportare a Firenze, città natale del poeta). Nel 1810 le ossa furono nascoste in una cassetta nell’oratorio del quadrarco di Braccioforte e riscoperte solo nel 1865, quando per caso le ritrovò un muratore


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 Inferno XIII, 10 - Disegno di Gustave Doré

Dal greco arpyiai, ladre, le Arpie erano rappresentate come mostri col volto di fanciulle, corpi ricoperti di penne come gli uccelli, artigli ai piedi, appollaiate sugli alberi a emettere strani lamenti e Dante le colloca nel girone di chi ha commesso suicidio. 

Nella mitologia greca sono i simboli dei venti tempestosi, i poeti greci gareggiarono nel descrivere la loro bruttezza e deformità, rappresentate sopratutto sui vasi greci come mostri dal corpo d’uccello con testa umana. 

Divinità funebri, oltre che nell’Inferno di Dante, si trovano queste creature fantastiche nell’Odissea di Virgilio, nell’Orlando Furioso di Ariosto che ne fa un lurido ritratto, nella Regina delle Fate, una allegoria di Spenser poeta britannico sotto il regno di Elisabetta I d’Inghilterra e nel Paradiso Perduto di Milton.